Mati
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“Anche Giuseppe, dalla Galilea, dalla città di Nàzaret, salì in Giudea alla città di Davide chiamata Betlemme: egli apparteneva infatti alla casa e alla famiglia di Davide. Doveva farsi censire insieme a Maria, sua sposa, che era incinta.” (Lc 2, 4-5)
Fino a non molto tempo fa, il racconto che troviamo nei Vangeli della nascita di Gesù mi portava ad immaginare uno scenario da presepio: colline, pascoli, campi coltivati. La tradizione vuole infatti che Gesù sia nato in una grotta, tra gli alberi, poco lontano dal villaggio. Nel mio immaginario questa rappresentazione dei luoghi della Natività si era in qualche modo sedimentata, aldilà della razionale consapevolezza di quello che accade oggi in Palestina. Quando nell'estate del 2008 sono arrivata in prossimità della città di Betlemme, la razionale consapevolezza si è trasformata in una sensazione fisica da “pugno allo stomaco”. Per entrare a "Bayt Lahem", la Città di Pane, oggi occorre attraversare il muro che separa la città, dallo stato di Israele. Quel maledetto muro che soffoca la città e umilia tutta la Cisgiorndania. Bisogna passare uno dei tanti check-point presidiati da giovanissimi soldati armati.
Se Maria e Giuseppe avessero dovuto intraprendere il viaggio da Nàzaret a Betlemme nel 2010 probabilmente Gesù sarebbe nato a un posto di blocco in attesa che i suoi genitori, magari tra gli insulti delle guardie, riuscissero a dimostrare di poter entrare in città.
A Betlemme, oggi, per ritrovare un po' di quel silenzio e di quella pace di cui parlano i Vangeli, bisogna scendere i pochi gradini che dalla Basilica portano alla Grotta della Natività. Lì, dove lo spazio è poco e riempito da silenzio, l'immaginario può, almeno per qualche secondo, riappropriarsi dei sentimenti positivi lasciati al check-point.
“Pace in terra agli uomini” dicevano gli angeli, ma gli uomini non ci hanno creduto.