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La donna nel fascismo 6 dicembre 2010, 11:50

fablam

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iscritto: 10/09

messaggi: 73

Le sue allusioni sono semplicemente indecorose e sterili, ma la capisco, quando si hanno poche argomentazioni politiche la si butta in caciara.

Essere appassionato di storia (romana e delle 2 Grandi Guerre soprattutto) signor Ballauri, non significa patteggiare politicamente per i fascisti; anzi, forse proprio perchè ho studiato con passione la storia posso fare certe affermazioni con cognizione di causa.

Ma cerchiamo di parlare di contenuti:

Le donne erano al centro della politica:

Come mai allora hanno ricevuto il diritto di voto solo nel 1946?

Come mai allora per le donne nel fascismo era vietato il lavoro extradomestico?

Come mai nel Codice Civile originario (1942, prima delle riforme, ultima quella del 1975) la donna era anche per la legge sottomessa all'uomo?

Come mai il programma di crescita demografica ebbe questo effetto: "La maternità - cito parole di uno storico - che definiva potenzialmente ogni aspetto dell'essere sociale femminile, veniva ridotta all'atto fisico di produrre bambini."?

E perchè non parlare della violenza sessuale così come normata dal Codice Rocco (codice penale promulgato in epoca fascista)?

[Piccola contestualizzazione: la donna in epoca fascista era “sposa e madre esemplare”, creatura soggetta ed obbediente al suo destino biologico, alla funzione riproduttiva esaltata come missione per il bene della Patria, cioè del Regime. Sottomessa al Capo Famiglia, ossia l'uomo, nell'esaltazione più indecente della virilità maschile.]

Per il Codice Penale i reati di violenza sessuale e incesto erano rispettivamente parte “Dei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume” (divisi in “delitti contro la libertà sessuale” e “offese al pudore e all'onore sessuale”) e “Dei delitti contro la morale familiare”. Così mentre si affermava che la violenza sessuale non offendeva principalmente la persona, coartandola nella sua libertà, ma ledeva una generica moralità pubblica si dimostrava che il bene che si voleva proteggere e tutelare non era tanto la persona quanto il buon costume sociale secondo il quale la donna non era libera di disporre di alcuna libertà nel campo sessuale.

Anzi, per convenienza dell'ordine sociale, la sua sessualità era negata, repressa o volta solo alla riproduzione della specie. La donna stessa doveva ignorarla e, per esempio, la “fanciulla per bene” non doveva avere alcuna notizia sul sesso: nessuno le spiegava come nascevano i bambini, spesso non sapeva niente nemmeno del fenomeno che doveva mutare il suo organismo, le mestruazioni. Lei doveva arrivare al fidanzamento o al matrimonio, meta prefissata della sua formazione, del tutto ignara di qualunque cosa, senza avere a che fare con il sesso e naturalmente del tutto “intatta”. Così intatta, che addirittura si prevedeva una visita medica che CERTIFICASSE LA SUA VERGINITA'.

Per quanto riguarda lo stupro: nella legge così com'era si trovava la distinzione tra violenza carnale e atti di libidine.

[Attenzione: questa parte contiene riferimenti espliciti al sesso]

Spesso molti processi si risolvevano in una ricerca minuziosa del livello di verginità anatomica violata. Questo perché si faceva una distinzione tra “congiunzione corporale” e “atti di libidine”. Ed era la Cassazione che con sentenze strabilianti definiva al centimetro di quanto doveva essere profonda la penetrazione perché fosse riconosciuto il reato di violenza carnale. Se il pene penetrava anche solo un tot sufficiente a consentirgli di riversare lo sperma dentro la vagina allora era considerato un “rapporto completo”. Se invece non c'era versamento spermatico o penetrazione ma “solo” un semplice contatto, anche intimo, offensivo, umiliante, molesto tanto da determinare nel molestatore un piacere equivalente al coito, non veniva considerato “congiunzione”. Se non c'era congiunzione non veniva riconosciuto il reato o cambiava l'entità della pena. Tutto ciò ovviamente senza parlare dell'effetto che un processo di quel tipo poteva avere sulle ragazze stuprate.

[Fine parte con riferimenti espliciti]

Altro reato contro la morale era il “Ratto a fine di matrimonio” e il “Ratto a fine di libidine” (abrogati solo nel 1996).
Il codice distingueva il ratto a seconda del fine che il rapitore si proponeva e puniva meno gravemente chi rapiva a scopo di matrimonio (Matrimonio riparatore: norma abrogata nel 1981, cioè pochissimi anni fa) e più gravemente chi rapiva a fine di libidine, ritenendo evidentemente che privare della libertà una donna e coartarne la volontà allo scopo di sposarla fosse meno grave. Cioè la donna veniva considerata alla stessa stregua di un oggetto che chiunque poteva rompere purchè poi si assumesse l'onere di raccoglierne i pezzi. E si poteva dire forse che il ratto a scopo di matrimonio era la parte peggiore perché mentre nel ratto a scopo di libidine la donna poi poteva fare la propria vita, in quello a scopo di matrimonio invece doveva restare, in quanto merce avariata e non più proponibile, senza più nessuna possibilità di scelta per tutta la vita.
Va notato che nel ratto a fine di libidine è prevista una aggravante se il reato era commesso nei confronti di donna legalmente sposata: la tendenza era quella di tutelare l'oggetto moglie, di proprietà del marito e qui ancora diventa evidente come nel codice era rappresentata la concezione dell'inferiorità della donna.

E l'elenco potrebbe continuare....

Macchine per produrre figli, stuprabili e relegabili in casa, senza diritti politici: se questo è porre al centro la donna, signor Ballauri, mi chiedo cosa sarebbe accaduto se non l'avessero posta al centro.




Ultima Modifica 6 dicembre 2010, 12:10
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