Il nostro (piccolo) paese, posto all'imbocco della Val di Susa, non può essere insensibile alla questione della Tav; certo, l'aver scelto il percorso della 'gronda' della val Sangone sposta più lontano da noi il tracciato dell'ipotetica ferrovia, che sarebbe altrementi passata per Brione, ma l'attenzione al territorio della quale spesso si è parlato tra questi bit porta ad interrogarsi sull'argomento.
La maggior parte dei partiti politici sono a favore dell'opera; non ho idea se i nostri gruppi comunali abbiano qualche idea precisa in proposito, nè se la dovrebbero esporre.
Ciò che sta accadendo in val di Susa è ben diverso ripetto alla cosidetta 'sindrome nimby'; mi sembra ci sia un duro scontro tra concezioni fondanti del vivere comune, almeno sotto due punti di vista.
Il primo, che accomuna alcune idee espresse su questo sito per il nostro territorio, riguarda la non negoziabilità del bene ambientale. Tra le argomentazioni dei noTav c'è la indisponibilità assoluta a rovinare con opere di cementificazione ecosistemi creati in migliaia di anni, posizione che si esprime fino al rifiuto assoluto di accettare un intervento così pesante sul territorio. E' una posizione relativamente nuova per l'Italia; non ricordo un così grande movimento d'opinione che si sia mosso per salvaguardare l'ambiente come bene primario posto alla base stessa del vivere sul territorio.
Il secondo, ben più pericoloso, testimonia lo scollamento tra le modalità che abbiamo storicamente individuato per governarci, la repubblica rappresentativa parlamentare, ed il sentimento delle popolazioni di un territorio.
Ponendo come indubbio (ammesso e non concesso) il fatto che la decisione di realizzare l'opera sia stata definita correttamente dal punto di vista istituzionale la sua applicazione genera un attrito che si colora di interrogativi irrisolti man mano che cresce il numero delle persone coinvolte.
Se, infatti, una sola persona con una singola casetta fosse contraria alla TAV, non esisterebbero problemi; se ne andrebbe sbuffando. Se fossero dieci, idem. Se fossero cento, farebbero un bel casino. Se fossero migliaia... e via discorrendo.
Possiamo aumentare il numero degli insoddisfatti... fino a che punto? Questa è la domanda che mi pongo: fino a che punto, fino a quante persone si può imporre una decisione democratica che insiste in un singolo territorio? Così come siamo certi che una sola persona non può resistere ad una decisione democratica così abbiamo la certezza che centinaia di migliaia, o milioni, di persone che resistono renderebbero irrealizzabile l'opera, tanto più quanto più sono convinti di opporsi.
Certo, se la decisione riguardasse persone disperse su tutto il territorio nazionale avremmo molti meno dubbi al riguardo; ma quando tutta l'opposizione si trova nello stesso luogo diventa forse impossibile far rispettare una decisione, per quanto formalmente democratica.
I due punti di vista messi insieme costituiscono una miscela esplosiva; non sembra esistere una soluzione incruenta.
Difendere l'ambiente, difendere il territorio, sembra fare a pugni con il nostro sistema di vita, con il capitalismo imperante che ha pervaso le nostre istituzioni, le nostre vite; forse in val di Susa questa contraddizione si sta manifestando in modo crudo, palese, incontenibile.
Come sostengono in molti, forse basterebbe un massiccio intervento delle forze dell'ordine per riportare a ragione i quattro facinorosi alla base delle proteste.
Il rischio è che non siano proprio solo quattro, ma molti di più, e che tutti questi non siano che la punta dell'iceberg, cioè di quel gran numero di persone che comincia a pensare che un'altro modo di vivere, lontano da questo capitalismo, sia possibile.
E' la rivoluzione?
Testi da 'Talking about a Rrevolution', Tracy Chapman